giovedì 11 luglio 2013

La nuova arrivata

"Quella è un pozzo di guai". Non la guarda nemmeno.
La signora dell'amministrazione scuote soltanto la spalla sinistra per farmi capire che si riferisce alla ragazza giù in fondo.
Quando fa questi movimenti sembra un'anziana chiusa in un istituto: ha uno spasmo involontario perché nessuno le porta un po' d'acqua, ma l'orgoglio non le permette di chiamare aiuto. Così rimane alla sua finestra, continuando a passarsi tra le dita delle mani la carta di un cioccolatino mangiato il giorno prima.
Io allungo lo sguardo ma vedo solo la testa. La stagista ha i capelli fini, talmente ordinati che non le serve tenerli con un elastico o un cerchietto.
Mentre ragionavo su quella tenda innocua e leggera color nocciola, sbucano gli occhi.
Si è accorta che la stavo fissando. Abbozzo un sorriso di comprensione imbarazzata. Non lo ricambia, batte le ciglia e si rimette con gli occhi sul suo lavoro. Torno a vedere solo i capelli. Li ha fermati dietro l'orecchio sinistro prima di rimettersi sul suo documento. Il sole le batte sulla testa facendole brillare certe ciocche.
Non ho mai capito l'atteggiamento dei colleghi all'arrivo di una nuova o di un nuovo stagista.
Ogni volta a pranzo si ripeteva un giro di chiacchiere in cui si distribuivano, tra un boccone e l'altro, informazioni sparse sulla persona in questione. Ne usciva un quadro inverosimile e un po' meschino. Loro erano meschini.
Queste demolizioni mi abituarono presto a fare a meno di pranzare con i colleghi tutti i giorni.
A volte capitava che andassi fino al parco in fondo all'incrocio.
Preferivo mettermi a masticare un panino e ammirare la pazienza di certi padroni e padrone che attendevano che i propri cani evacuassero per poi raccogliere con perizia aristocratica il pezzo di cacca con una bustina. I limiti dell'amore mi hanno sempre affascinata.
Cercavo spesso questi confini invalicabili. Mi misuravo con le personalità degli altri, per quello che riuscivo a capire dal loro aspetto.
Per capire com'è una persona, bisogna guardarla mentre aspetta, come si sistema addosso le mani o intreccia i piedi, come riempie quel momento, come si sfila l'imbarazzo di dosso per rimetterselo di nascosto quando capisce che non lo vedi.
Uno sguardo smarrito o l'appoggiarsi al muro, ad esempio, rivelano un'abitudine ad essere abbandonati o all'abbandonarsi.

Terminato lo studio senza una tesi definitiva, rientravo in ufficio come si ritorna dalle vacanze a settembre: sforzandomi di non trascinare i piedi, sorridendo in apnea, cercando con gli occhi il cielo tra i palazzi e con la testa che fatica a ricordarsi di rimanere su collo.