domenica 10 novembre 2013

Bootleg experiment 6/10


È ancora online l'ultimo numero di Bootleg che ha ospitato una mia riflessione dal titolo Occhi nuovi
Pippone mio a parte, date un'occhiata al contenitore, un vero e proprio esperimento editoriale: non è poi così impossibile trovare una giraffa in giardino.

bootlegexperiment.it

mercoledì 18 settembre 2013

Ho scritto un racconto brevissimo (o un romanzo concentratissimo) e lo pubblicano. Quindi niente, ci si becca a Roma?

Domani a Roma verrà presentata l'antologia "Storie in 100 parole", da L'Erudita Editrice (ecco l'evento su fb). Chi vorrà, potrà trovare editore e autori al Beba do samba, in Via De' Messapi 8. Ci sarò anche io a fare da quarta di copertina ambulante della mia storia in cento caratteri. 

Non so cosa si dice di utile in questi casi. Solitamente le presentazioni sono una ganzata sofisticata per l'aperitivo gratuito, accompagnato da decisioni avventate come comprare un libro che ti illumina sull'evoluzione della poesia armena negli ultimi due secoli (quel tizio era così affascinante, dov'è il mio portafogli?), ma in linea di massima una serata in cui ci sono dei libri finisce sempre bene, con incontri curiosi e un doposbronza che non compromette il regolare svolgersi del weekend in arrivo.


Di chi era la festa ieri sera??
Ma no, presentavano un libro.
Ah. C'era Saviano?
No
Che ci sei andata a fare?


Dimenticavo, la mia storia s'intitola L'ingegnere.
Mi raccomando, non siate puntuali.

   

giovedì 11 luglio 2013

La nuova arrivata

"Quella è un pozzo di guai". Non la guarda nemmeno.
La signora dell'amministrazione scuote soltanto la spalla sinistra per farmi capire che si riferisce alla ragazza giù in fondo.
Quando fa questi movimenti sembra un'anziana chiusa in un istituto: ha uno spasmo involontario perché nessuno le porta un po' d'acqua, ma l'orgoglio non le permette di chiamare aiuto. Così rimane alla sua finestra, continuando a passarsi tra le dita delle mani la carta di un cioccolatino mangiato il giorno prima.
Io allungo lo sguardo ma vedo solo la testa. La stagista ha i capelli fini, talmente ordinati che non le serve tenerli con un elastico o un cerchietto.
Mentre ragionavo su quella tenda innocua e leggera color nocciola, sbucano gli occhi.
Si è accorta che la stavo fissando. Abbozzo un sorriso di comprensione imbarazzata. Non lo ricambia, batte le ciglia e si rimette con gli occhi sul suo lavoro. Torno a vedere solo i capelli. Li ha fermati dietro l'orecchio sinistro prima di rimettersi sul suo documento. Il sole le batte sulla testa facendole brillare certe ciocche.
Non ho mai capito l'atteggiamento dei colleghi all'arrivo di una nuova o di un nuovo stagista.
Ogni volta a pranzo si ripeteva un giro di chiacchiere in cui si distribuivano, tra un boccone e l'altro, informazioni sparse sulla persona in questione. Ne usciva un quadro inverosimile e un po' meschino. Loro erano meschini.
Queste demolizioni mi abituarono presto a fare a meno di pranzare con i colleghi tutti i giorni.
A volte capitava che andassi fino al parco in fondo all'incrocio.
Preferivo mettermi a masticare un panino e ammirare la pazienza di certi padroni e padrone che attendevano che i propri cani evacuassero per poi raccogliere con perizia aristocratica il pezzo di cacca con una bustina. I limiti dell'amore mi hanno sempre affascinata.
Cercavo spesso questi confini invalicabili. Mi misuravo con le personalità degli altri, per quello che riuscivo a capire dal loro aspetto.
Per capire com'è una persona, bisogna guardarla mentre aspetta, come si sistema addosso le mani o intreccia i piedi, come riempie quel momento, come si sfila l'imbarazzo di dosso per rimetterselo di nascosto quando capisce che non lo vedi.
Uno sguardo smarrito o l'appoggiarsi al muro, ad esempio, rivelano un'abitudine ad essere abbandonati o all'abbandonarsi.

Terminato lo studio senza una tesi definitiva, rientravo in ufficio come si ritorna dalle vacanze a settembre: sforzandomi di non trascinare i piedi, sorridendo in apnea, cercando con gli occhi il cielo tra i palazzi e con la testa che fatica a ricordarsi di rimanere su collo.





giovedì 27 giugno 2013

Metrovaneggiamenti

Quando entro in metro mi aggrappo ai pali metallici come una scimmia stanca.
La sera il vagone è un utero caldo e sudato che accoglie e sposta tutti.
Pachistani cogl'ombrelli, commesse di Zara, africani coi libri sull'Africa. Stasera ci accompagniamo tutti a casa. Lasciamo incontrollato uno sbadiglio mentre con le mani distendiamo la fronte accartocciata dalla stanchezza. Le braccia sono funi attaccate al centro di un soffitto. Le molliamo lungo il corpo come sassi in un pozzo: aspettiamo di sentire il tonfo (vero scopo del lancio).
Non si vuole mai dire qualcosa, ci limitiamo a guardare senza darlo a vedere, riconoscendo che tutto è ancora quello di otto ore fa.
Cerco un luogo neutrale dove puntare gli occhi, fingendo disinteresse per tutti gli altri, mentre ripasso le tracce dell'ipod. Non c'è nulla che possa evitare questo viaggio in compagnia tra finti distratti.
La metropolitana azzera tutto e tutti: è l'unico momento in cui perfetti sconosciuti sono bloccati per un frangente della propria giornata in un luogo preciso e limitato.
Siamo vincolati da un tempo, dall'attesa di minuti precisi, gli unici riconoscibili della nostra giornata. Andiamo a rallentatore verso il convoglio che sta frenando, saliamo, ci sediamo nel salotto e aspettiamo. Nell'attesa misuriamo l'intelligenza degli altri a seconda di come ognuno prende la propria postazione e di come la mantiene. In questa strana riunione tra sconosciuti anonimi, ci pesiamo in spazi tolti e gomiti affondati nei fianchi.
Ma questo correre di passi certi, di piedi svelti e di partenze obbligate è anche la certezza di un ritorno consolatorio, di un'accoglienza promessa, di una salvezza.
Perché partire è partire, ma partire è anche tornare.

mercoledì 19 giugno 2013

LA RAGAZZA DAI CAPELLI STRANI - Impressioni su David Foster Wallace

Qualche giorno fa, stavo per scrivere questo post prima ancora di finire il libro, a un racconto esatto dalla fine.
Non avevo mai pensato che avrei potuto scrivere di un libro mentre ancora lo sto leggendo.
Mi è accaduta la stessa cosa che succede quando conosciamo qualcuno: inevitabilmente, dopo i primi minuti di conversazione, abbiamo stabilito se la prossima volta cercheremo di evitare qualsiasi contatto con quella persona o se forzeremo delicatamente un incontro.
In poche parole avevo colto e assimilato il senso del libro, o meglio il senso di questo libro per me, e non vedevo l'ora di ordinare le impressioni in un paragrafo coerente, di tradurle in fretta per dirle finalmente a qualcuno. Però non mi sembrava giusto, così ho atteso l'ultima pagina e quelle che seguono sono le mie impressioni su tutto il libro e chi l'ha scritto.

L'autore in questione è David Foster Wallace, autore che si inserisce in quella lunga e straordinaria tradizione di autori di grande successo che non erano tali quando erano ancora in vita. Il nome di Wallace infatti non era emerso, almeno non così tanto in Italia, mentre era ancora in vita (per chi non lo conoscesse o lo conoscesse poco, questo articolo può farvi da bussola per recuperare).
Quando lessi per la prima volta di lui - purtroppo soltanto due anni fa - ho pensato che dovevo assolutamente leggerlo, poi gli studi e la tesi hanno imposto altre letture. Soprattutto leggendo i commenti sulla sua scrittura sparsi nella rete, avevo capito che la sua lettura sarebbe stata impegnativa da approcciare. Avevo bisogno di un momento diverso ma già guardavo i suoi titoli ogni volta che entravo in una libreria.
La ragazza dai capelli strani: ho iniziato da questo libro ed è stato un caso perché mi è stato regalato (parlo dell'edizione di Minimum Fax, 2011 con la traduzione di Martina Testa).
In tutto nove racconti, nove ispezioni dell'animo umano, collocate in precisi momenti storici.
Un verbale accurato delle nostre incapacità decisionali, delle nostre paure e inceppature emotive, restituite con uno stile inedito, che riporta voci multiple e presenta numerosi eventi anche in poche righe. Lo stile di Wallace ha una linearità di esposizione e una completezza rare, credo estremamente difficili da realizzare. Detto banalmente - proprio perché l'effetto che ne deriva è quello di un'immediatezza e lucidità difficili per me da descrivere - "l'autore dice tutto" con il raro pregio di non risultare claustrofobico, né accumulativo.
Racconto dopo racconto, sbalzato da un'epoca all'altra, il lettore entra nelle dinamiche personali di uomini, donne, giovani e meno giovani che affrontano momenti-chiave della propria esistenza. Momenti che non solo li cambiano, determinando le loro azioni future, ma sono l'occasione per misurare la propria personalità nel confronto con quella degli altri. Un confronto che spesso li distrugge perché gli restituisce la propria vera faccia, o quella altrui, con tutte le crepe del caso.
Wallace non giudica nessuno, non dà colpe, non costruisce un cattivo, non è meschino; si inserisce sotto una soglia, e posizionato al di sotto di essa, guarda fuori. C'è comprensione profonda, ma non immedesimazione totale. Si rimane al di qua di quella finestra: siamo da quella parte, ma non così dentro; siamo abbastanza vicini da vedere tutti gli sforzi del personaggio per cercare di essere ciò che vorrebbe essere, ma non tanto da permetterci una fusione totale con esso.
Un altro aspetto che colpisce della sua scrittura è la vocazione clinica nel voler indagare l'emozione umana, restituendola attraverso accostamenti inediti.
L'autore crea spesso delle immagini potenti:


  Una delle macchine si ferma sul bordo dell'autostrada. Una giovane donna 
  con il viso floscio fa scendere dalla macchina due bambini (p. 7).

L'essere umano dei racconti di Wallace sembra un cartone animato, un pupazzo mai abbastanza adatto per qualsiasi gioco: nel tentare di realizzare la sua vocazione sociale fallisce in una serie di movimenti sconnessi, in gesti goffi e tic nervosi, rivelando tutta la sua ignoranza relazionale, che tuttavia non è ignoranza emotiva. C'è la consapevolezza di una perdita, di un certo dolore, ma identificarlo e nominarlo spesso è impossibile.

Qualche giorno fa leggo del "caso Green": la vedova dello scrittore - Karen Green - è l'autrice di Bough Down, libro nel quale affronta la drammatica perdita del marito aprendosi per la prima volta al pubblico. La lettura di un autore morto prematuramente e in circostanze tragiche (il 12 settembre 2008 Wallace si tolse la vita impiccandosi nella sua stessa casa e a trovarlo fu proprio sua moglie), trasferisce immediatamente tutto ciò che ha scritto in una cornice di interpretazione particolare, quella di una serie di interrogativi che il lettore più o meno esplicitamente inizia a porsi, mentre si appassiona al testo: non fosse stato così gravemente depresso, avrebbe scritto quello che ha scritto? il suo stato mentale ha influito il suo modo di scrivere? Come separo l'autore dall'uomo?
Domande sotterranee e spontanee che nella critica letteraria ciascuno, di volta in volta, ha giudicato legittime o meno e che non portano mai davvero a risposte univoche e definitive, ma sono di per sé la testimonianza di quel fascino misto a soggezione che si prova nei confronti di un autore di talento, soprattutto per chi, come me, aspira ad un'idea di puntualità dello scrivere che si avvicina molto alla sua.
La grandezza della scrittura di Wallace (e quindi la grandezza della sua sensibilità) è quella di realizzare dei cortocircuiti perfetti: non descrive la sensazione umana che deriva da qualcosa che accade, ma esattamente ciò che accade nell'intimo.
Proprio come un sismografo estremamente sensibile, l'autore è riuscito a registrare un movimento interiore e la preziosità di questa scrittura sta nel suo potere di rivelazione di quel tipo di movimento, di quel piccolo sisma che ognuno di noi prova nel corso della propria vita, in diverse circostanze:

 Da dov'è seduta sta guardando fuori, e io guardo lei, e c'è qualcosa in me che 
 non si riesce a chiudere, nel guardarla (p. 300).  


   Buona lettura.

martedì 18 giugno 2013

Per il nuovo arrivato nel palazzo

Da qualche giorno sento scrosciare i tuoi pianti.
Mi sforzo di capire se è perché hai fame o perché devono cambiarti il pannolino: sei un essere misterioso.
Credo tu sia un maschietto, ma non potrei esserne davvero certa. Abiti nel mio stesso palazzo e già rivendichi con le tue grida il tuo spazio e la tua attenzione.
Chissà se sei italiano o filippino o africano o cinese. Che che cosa poi vorrà dire. Siamo a Milano: qualcuno qui davvero crede che abbia importanza? Ti diranno che è importante lavorare.
Spero che quando inizierai a saper afferrare gli oggetti, tu possa già conservare il ricordo della purezza di certi pensieri che credo si facciano quando si è piccoli, cose banali, verità luminose. Spero che riuscirai soprattutto a conservarli a lungo per farli sbocciare quando diventerai adulto.
Io farò 27 anni il 28 giugno prossimo. Mi aspettavo tante cose di questa età, quando ero piccola.
Pensavo che avrei avuto già in pugno una strada mia, che sarei stata tanto felice, che avrei già capito tutto.
La verità è che adesso vivo quella che a scuola ti insegneranno a chiamare "la grande crisi dopo quella del 1929". Roba già trita e ritrita oggi, probabilmente ci faranno delle magliette spiritose mentre studierai al liceo.
Perché ci devi andare e dovrai studiare e, attenzione, anche non studiare. Cioè dovrai sapertela vivere.
E' una roba assurda da capire ora, ma conserva se puoi questo post - come un foglio non potrà ingiallire e spero che qualcuno potrà recuperartelo - e quello che ti dico.
Io sono cresciuta con il mito del 68 (strano quante volte si guardi con reverenza fatti non vissuti in prima persona): è un numero bellissimo, ma vuoto. E' una bella scatola. Oggi molte cose che venivano urlate per le strade in quei giorni lì, che non ho nemmeno vissuto, sono aria fritta. Negli anni e anni successivi a quel numero è successo esattamente tutto quello che si voleva evitare; e anche peggio.
Se sei una bambina, e continuerai a vivere in questo paese, ricorda che probabilmente non potrai abortire. Ricorda che certamente non è una scelta da prendere in maniera superficiale: è un'esperienza che può essere traumatizzante e dolorosa. Ciò che conta è che tu ne sia consapevole e se sarà davvero una tua scelta, allora sappi che molti dottori qui sono convinti di poterti dire cosa fare e cosa non fare. Un atteggiamento molto di tendenza (preparati anche a questa parola).
Dovrai farlo tu il 68 insomma.
Dovrai dire tante cose, leggerne ancora di più, alzare la voce, schiarirla bene prima e alzarti in piedi.
In questi giorni in Turchia, per dire, la popolazione ha manifestato per difendere un parco. La protesta è stata repressa brutalmente. Ancora oggi però continua e nuove forme di dissenso, poetiche, sono state inventate. In questi giorni ci sono persone che ad esempio, se ne stanno semplicemente tutte insieme, in piedi, ferme, nello stesso posto.
Puoi immaginare qualcosa di più chiaro e forte del messaggio "io da qui non mi schiodo"? Tu dovrai fare la stessa cosa e tante volte (ti auguro piedi resistenti e gambe forti).
Se sei gay, beh che te lo dico a fare. Tante persone cercheranno di dirti cosa devi essere e cosa non essere, cosa fare e cosa non fare. Tu sii te stesso, impara a renderti giustizia semplicemente essendo te stesso.
Coltiva la tua piantina giorno per giorno.
Scegli il vaso più adatto e l'esposizione migliore, riparala dal vento e dalla neve, aprila al mattino verso il sole e ritirala alla sera se fa troppo freddo. La personalità non ci viene data al momento della nascita: la scopriamo piano piano e come un'orchidea, è delicata. Va curata giorno per giorno e difesa dagli attacchi esterni, da chi vorrebbe potarla (c'è chi la vorrebbe pure di un colore diverso!).
Attento al gruppo, alla mentalità conformista, al branco, allo stesso modo con il quale devi stare attento a chi afferma di voler difendere i deboli e i buoni, a chi afferma di essere dalla parte del giusto. Prima osserva e verifica il suo comportamento.
Ricorda che ognuno parla per se stesso, la tua opinione è importante quanto quella di un altro.
Rispetta gli altri ma fatti rispettare.
Studia bene storia, perché lì tante risposte sono lasciate raffreddare senza che nessuno si ricordi di tenerle al caldo.
Attento alle bugie, all'apparenza, all'importanza data a quest'ultima, al potere delle parole, alla paura del potere delle parole; attento al silenzio o alla risata troppo fragorosa che maschera un abisso profondo.
Mi raccomando: impara dall'arte, ascolta molta musica, canta e balla spesso.
Fa' tesoro dei dettagli, dello scorcio che rapisce il tuo sguardo, guardati sempre intorno, sii curioso, fa' tesoro di una parola detta nel momento giusto, di un abbraccio spontaneo.
Ma sento che hai smesso di piangere. 
Sei capitato nelle braccia di qualcuno che evidentemente sa cullarti e ignori le urla dei tuoi fratelli (tuo padre perché li sgrida?) che di sotto giocano a calcio, in quello che sembra un cortile da oratorio.
Come capirai presto, ogni mondo è paese e ogni quartiere di una grande città è, a quanto pare, l'angolo riparato di un paesino di campagna. 
Tanti auguri e buona vita. Se ti serve qualcosa, mi trovi al terzo piano.

lunedì 3 giugno 2013

Se gioventù sapesse

Riflessione obiettivamente insopportabile e senza un punto chiaro d'arrivo su un oggetto quotidiano inteso come una specie di amuleto casalingo, che mi serve da pretesto per scrivere un nuovo post mentre aspetto la fine della centrifuga.


Dovremmo coltivare uno stendino.
Tutti dovremmo averne uno.
Ma il punto è: va coltivato, cioè rispettato e usato con cura.
Perché lo stendino ti permette di far asciugare i tuoi vestiti e dunque di indossarli. Ti permette di seguire una regola civile che prevede che non puoi girare completamente nuda (almeno in questa porzione di cultura) di non avere freddo, di assecondare un tuo gusto personale. Mi sembra già abbastanza per correre a comprarsene uno. 
Vale la pena però approfondire. Dunque dicevo, lo stendino. 
Lo stendino accoglie le tue cose. Gli fa passare l'aria attraverso. E' una specie di finestra, di fenditura, è un filtro, una porta. Fa prendere aria alle cose, che altrimenti metteresti per terra. Lo stendino le eleva, non so se mi spiego. 
E' come la passeggiata all'aria aperta: ti schiarisce le idee. La cosa ha un che di filosofico, e anche se il "che" solitamente è tra le cose più ardue da spiegare - come un lenzuolo matrimoniale! - ci proverò portando il famoso caso del calzino.
Il calzino, prima di stendersi sullo stendino, è un pezzo di stoffa zuppo, niente di più.
Un volta che lo stendino lo ha accolto il calzino, esso lo trasforma.
Ciò a cui non abbiamo la fortuna di assistere - perché di solito uno stende la mattina prima di uscire per andare a lavoro e ritira tutto la sera - è questa grande trasformazione, trasmutazione, reincarnazione in qualcosa d'Altro.
Alla sera noi conosciamo il Calzino: coprirà il piede, lo terrà caldo e lo vestirà prima di fare il debutto mattutino nella scarpa. Per i piedi il debutto è importante. 
Anni di preparazione sembrano ridicoli quando giunge il fatidico momento (c'è una nutrita bibliografia sull'importanza del piede e tutta una letteratura feticista che neanche vi sto a dire).
Insomma, lo stendino. Anzi, lo Stendino.
Sicuramente Astolfo, oltre al senno di Orlando, si è caricato sull'ippogrifo anche uno stendino (ma Ariosto non poteva scriverlo: gli Estensi - borghesi - avevano l'asciugatrice).
Trattate sempre bene il vostro stendino, è un oggetto magico, quando spalanca le braccia è per compiere un incantesimo.